Intervista a cura di Daniela Ionta. 

“Radici avventizie aggrappanti. Ci sono persone che quando entrano nella tua vita non ne escono più. Non importa quale sia la distanza e nemmeno la ragione di quel legame. È così e basta.
Dice che il ritratto più difficile di tutti i ritratti è quello della propria madre. O padre. E vi assicuro che di ritratti, lui, ne sa qualcosa.
Ma la filiazione ha molte forme, e spesso ci si riconosce in qualcuno o qualcosa solo per una parte del proprio vissuto, o della propria anima.
Sto decisamente scadendo nel sentimentale. E poi se scrivo che è mio padre, in questa uscita pubblica, mi prende a calci in culo. Perciò non diciamolo.
Diciamo invece che a questa persona devo molto più del taglio di capelli, in termini di ispirazione e pensiero, e che sono molto felice di intervistarla.
Molto prima della connessione personale nasce l’amore per le sue opere. La cosa che mi ha sempre impressionato del suo modus è la sottile trama di ossessione che connette le sue raccolte. La capacità, molesta, di scoprire verità dell’anima non sempre facili da raccontare, con una prosa levigata.

Angelo, lo chiedo a tutti gli intervistati di sesso maschile, ma nel tuo caso è una domanda piuttosto sentita: ci conosciamo da 5 anni, quand’è che mi sposi? L’anello di latta va più che bene, guarda…
 
Sono sopravvissuto a tante di quelle tentazioni del genere che oggi mi vorrei godere l’ illibatezza.
 
 
Abbiamo avuto occasione di scambiare due chiacchiere poco tempo fa, e mi dicevi della tua ultima trasformazione. Nella tua vita da artista sei stato reportagista, fotografo di moda, ritrattista, e ora sei un artista visuale e passi dal video, alla fotografia, alla direzione artistica. Come sono avvenuti questi passaggi? In quale misura dipendono da cambiamenti esterni oppure personali?

Non mi sono mai sentito portatore della grande missione fotografica. Sono sempre partito dalle idee, dalle storie, dai luoghi. Dai volti, soprattutto dai volti. All’interno di quale contenitore e con quale mezzo non mi interessa particolarmente. Mi piace pensare una storia. Mi piace produrla, organizzarla. vederla crescere. Mi piace realizzarla. Mi interessa meno la fine che fa. La mostra, il libro, la pubblicazione. E’ un mio grande limite. Il mio amico Pizzi Cannella la chiama incapacità a difendere l’opera. Quando sta per finire un impegno sono già eccitato dalla ideazione del successivo. L’importante è riuscire a mantenere lo stesso punto di vista, qualunque sia il contesto in cui mi esprimo e qualunque sia il mezzo.
 
Ho sempre avuto l’impressione che il sesso, e anche le tensioni nelle relazioni, fossero molto presenti nelle tue foto. Non so esattamente che cosa voglio chiederti. Ma tu rispondi lo stesso, per favore.
 
So che le mie immagini vengono ritenute sessuali. Io personalmente non lo credo. C’e molto nudo nei miei lavori, come nella pittura nella scultura e nelle arti visive di ogni tempo, dalla Venere di Willendorf, ai tempi nostri. Le chiese ed i musei sono pieni di corpi nudi. Spesso martoriati, spesso in estasi. Io mi rifaccio a quella tradizione. Mi piace la purezza e la fragilità dei corpi. Come ben sai sono un ex atleta, ed anni di allenamenti per migliorare il tuo corpo vedendo accanto i corpi altrui, mi hanno dato un rapporto con la figura molto naturale. Io non guardo dal buco della serratura ma mi trovo molto a mio agio davanti ai nudi. E questo si vede nelle foto e nell’atteggiamento delle persone ritratte che fanno per me cose che normalmente non farebbero (farsi appendere nude nei montacarichi, spogliarsi in pieno inverno in un cantiere esposto a pioggia e vento, esibirsi nude avanti a decine di persone ricoprendosi di vernice blu). Poi c è una cosa che non so spiegarti. Sono consapevole di una certa forza che ho nello sguardo e che nella vita di tutti i giorni non uso. Poi lì sul set arriva un certo momento in cui io GUARDO. E’ uno sguardo molto naturale per me. E’ una tensione a guardare quello che mi piace di una persona, a conoscerla, ad idealizzarla.
Non è seduttivo, ma accade qualcosa nel soggetto, (uomo o donna, giovane o vecchio, famoso o sconosciuto, londinese od indios amazzonico) che 99 volte su cento risponde al mio sguardo con un’identità che è rimasta sempre la stessa, dai miei inizi ad oggi.
 
 
Tu sei un fotografo che si riferisce molto poco ad altri fotografi. Non credo sia per snobismo o per ignoranza, ma mi sembra di capire che ti interessi molto di più riferirti ad episodi della letteratura, della storia dell’arte, della storia, o del cinema. Addirittura peschi le tue metafore dalla Bibbia. Ci racconti come nascono i tuoi progetti?

Intanto non è vero che non amo fotografi. Sono un famelico osservatore di immagini. Ho i miei amori passati (il Robert Frank di “the lines of my hand”), e recenti (il Credwson di Beneath the Roses). Di base io mi innamoro di una storia. La metto da parte (in un file, in una cartella, in una moleskine). In seguito arriva un’ altra influenza. Un film. Una mostra. Poi incontro un soggetto adatto o mi imbatto nella location perfetta. Quando due o tre “illuminazioni” coincidono scatta una qualche molla che fa iniziare un progetto. E’ come un lento avvicinamento ad un’idea che poi non mi lascia più. Nessuno dei miei progetti è concluso. Magari è stato accantonato per mancanza di stimoli, o perché dopo una mostra sembra aver ricevuto sufficiente attenzione. Invece resta lì e prima poi ritorna in auge, rivisitato alla luce della mia crescita artistica. Pur essendo nato a Roma da mamma romana vengo comunque da una famiglia borghese del sud. Medici, ingegneri ed avvocati. Per fortuna anche qualche dandy dei primi novecento, qualche avventuriero… Perfino un nonno giornalista, ma nessun artista. La mia è una provenienza umanistica, mai pensato ad un liceo artistico. Ho scritto da sempre. A 16 anni ero già iscritto alla SIAE per le canzoncine che componevo al liceo. Ho scritto un autobiografia (di cui mi vergogno moltissimo) a 23 anni. Questo, insieme alla mia passione giovanile per Alessandro Magno, di cui porto il simbolo da 25 anni al dito, darebbe abbastanza lavoro ad uno psicanalista, che ho evitato come la peste di incontrare, nonostante gli spietati incoraggiamenti a farlo delle mie fidanzate recenti e passate. Poi alla fine di tutto c’è che io cerco di fare quello che mi dà felicità. E nulla al mondo mi fa felice come una giornata intera passata dentro il Metropolitan a NY, o in un sito archeologico in Siria. Quello mi piace e quello cerco di riproporre.
 
 
Mi sembra che tu metta molta cura nella scelta dei tuoi soggetti. Quanto, il soggetto delle tue opere, influenza l’immagine finale?
 
I volti per me sono tutto. Ed i corpi, le movenze. Gli sguardi. Mi emozionano o mi lasciano indifferente. Sarei un casting director favoloso. Ho fotografato ragazzine a cui nessuno dava una lira e che poi sono esplose. Tra tutte cito Karen Elson, che imposi 15enne ad una fashion editor che la riteneva una modella scampata per un soffio al mongolismo, e poi diventata una icona della moda internazionale. Mi innamoro letteralmente dei personaggi che incontro.
Ho notato che molto raramente i personaggi dei tuoi ritratti tradiscono le loro emozioni. Molto più spesso è il contesto ad essere caricato di valori emotivi. Perché non racconti mai apertamente le emozioni nelle tue immagini? A che canone estetico ti riferisci?
Non capisco bene quello che vuoi dire. Il fatto è che a me non interessa il reale. Cioè non interessa riportarlo fedelmente Mi interessa ricreare mondi personali ed idealizzati. Non mi interessa nemmeno una ricostruzione totalmente falsa. Ricerco un mix tra reale ed immaginario. Un po’ come le luci che di solito uso. Quelle che ci sono in location mescolate a quelle artificiali. Una linea sottile di demarcazione tra il vero ed il falso. Un reale immaginato.
 
 
Parlavo di rapporto di filiazione. Spesso ci si sente “genitori” delle proprie opere, ma tra i tuoi progetti ci saranno sicuramente alcuni a cui ti senti più connesso, altri che magari hai abbandonato ma speri di finire, un giorno. A quale delle tue opere ti senti più legato, e quale dei tuoi progetti abbandonati pensi di riprendere?
 
Intanto la mia intera produzione va divisa in due filoni. che potresti chiamare ritratti immaginari e ritratti.
Io di solito la vivo, facendo un paragone musicale, come la mia versione elettrica e quella unplugged. Nei primi mi diverto molto di più. C’è di mezzo la mia ritrattistica , la creatività, la letteratura, e lo stile molto mutato dal fashion. Tra questi la serie “Gloomy sunday. Ritratti di donne che hanno scelto la morte” è stato, oltre che il maggior successo artistico, anche un punto di svolta della mia carriera. Mi ha fatto riconoscere come artista a 45 anni, mi ha dato il punto di incontro tra quello che avevo fatto e quello che volevo fare. Mi ha fatto affrontare una nuova avventura sorretta da consapevolezze antiche. Che in soldoni significa fregartene dei pareri altrui ma fare quello che ti piace che poi qualcuno a cui piace lo si trova. Tra gli unplugged per ora il vertice rimane quello dei fiumi ed in particolare il viaggio in banco ottico e polaroid lungo il Rio delle Amazzoni. Un esperienza bellissima e faticosissima, che spero di ripetere appena soldi e tempo me lo consentano.
 
 
Mi piacciono i tuoi video. Non che io abbia una mente abbastanza astratta per capirne i contenuti. Ma fai della musica un elemento della narrazione. È importante la musica nella tua vita e quando crei?
 
Voglio girare un film. ne ho almeno tre nel cassetto, uno in fase avanzata. Ci vogliono molti soldi e sembra così difficile… Ma mi piace girare. Lo faccio da tempo. L’ultimo artmovie l’ho realizzato con Simona Lianza. Si chiama Entropia. Fa parte di una trilogia in cui la matematica e le arti visive si mettono a confronto. Primo di un ciclo di video che vanno a scandagliare il concetto di inconscio, di magia, di legame tra scienza, psiche e metafisica. “Entropia è la drammatizzazione di una cosmologia psichica, un ciclo cosmico che parte dall’ordine per degenerare lentamente nel caos. Il caos che è seguito dall’annullamento, l’annullamento che rigenera un nuovo ciclo “ recita l’incipit. Come ti dicevo non sono uno still photographer puro. Racconto da sempre storie con le mie foto, e quindi non ho avuto nessuna difficoltà a metterle in movimento.
Sfruttare la musica ed il montaggio mi piace molto. Soprattutto nei miei video si sente una ritualità che nelle foto non sempre appare.
 
 
Se tu non fossi un artista visuale, e potessi scegliere un percorso di vita diverso, che cosa saresti?
 
In qualità di figlio di un medico, idealmente ti direi che lavorerei per Emergency in un ospedale a cielo aperto a Kabul. Ma se lo avessi voluto fare davvero sarei lì. La verità è che continuerei a fare quello che ho fatto e che mi appassiona. Forse proverei con la scultura che mi ha sempre attratto. Comunque ho tante di quelle vite a disposizione che non escludo di passarne una da travet, con orari e vacanze stabiliti. Vorrei avere un hobby. Avere un momento della giornata in cui l’attività celebrale volta a creare, o a cercare occasioni per creare, cessi di esistere. Vorrei avere avuto una vita normale a disposizione.
 
 
Hai esposto in Olanda, in Francia e in Austria. Dopo aver vissuto diversi anni a Londra sei tornato a Roma. Che cosa ti lega a Roma, e che rapporto hai con la città?
 
Roma è importantissima per me. Sono nato sull’Appia Antica, la via/mausoleo della antica Roma. Per andare a scuola passavo davanti al Colosseo e mi allenavo tutti i giorni in uno stadio dentro le terme di Caracalla. Essere artsti in una città come Roma è difficilissimo. Esci dal tuo studio convinto di aver fatto un capolavoro, poi passi per via dei fori imperiali, oppure entri in una chiesa barocca a caso, e ti senti una nullità.
Roma non sarà mai, in quanto città eterna, una città contemporanea. Devi nascere nella periferia di qualche città industriale inglese, o di un paesino rurale del midwest per avere la rabbia e l’ignoranza sufficienti per essere contemporaneo. Se sei romano, nasci classicheggiante e figurativo. E’ una specie di peccato originale. Io ho viaggiato a sufficienza nelle città, nei deserti e nelle giungle dei cinque continenti. Poi sono tornato a casa.
 
 
Parliamo di cose più concrete. Negli ultimi 15 anni hai fondato una casa di produzione, la Lost&Found, e anche una associazione che organizza eventi, Bianca. Qual è l’ingrediente che fa funzionare le collaborazioni negli anni?
 
Sono interessatissimo alle partnerships e questo incide nella volubilità delle mie direzioni. Nella mia carriera ho sviluppato moltissime collaborazioni con artisti, registi, fotografi. Ho avuto una partner principale (che tu conosci benissimo), e per circa 15 anni abbiamo condiviso la casa di produzione cha abbiamo creato insieme, la Lost&FoundStudio appunto. E soprattutto ci siamo presentati come duo fotografico. Credo che siamo stati i primi in assoluto, se escludiamo Pierre e Gilles. Era molto imbarazzante e difficile spiegare come mai fossime due. Di solito me la cavavo (all’estero) raccontando che gli italiani del sud sono pigri, ed in due ci suddividiamo i ruoli meglio. Anni dopo è partito il boom del duo fotografico nella moda (Inez Van Lamsweerde e Vinoodh Matadin, Mert Alas and Marcus Piggott, Sofia Sanchez e Mauro Mongiello per stare sui più conosciuti).
 
 
Ogni volta che parlo di macchine fotografiche Il capo redattore si incide una x sul braccio sinistro con un coltellino svizzero. Ciò nonostante desidero farti questa domanda. Quando ti ho conosciuto scattavi spesso con una Linhof Tecnika, una macchina che definirei un banco ottico da passeggio, e ha il doppio dei tuoi anni. Sei un feticista?
 
Non parlerei di feticismo riguardo alle macchine fotografiche. Mi piace come i soggetti si dispongono naturalmente davanti alla Linhof. Il rispetto che incute. La ritualità che emana. Così come mi piace il rumore meccanico dell’Hasselblad.
Quello scatto profondo e avvolgente. Cose “vintage” di un uomo maturo. Non necessariamente regole universali. Io non credo che sia il mezzo a fare l’immagine.
 
 
Ci parli dei progetti su cui stai lavorando ora? Hai in progetto delle mostre?
 
Oltre alla trilogia video di cui ti ho accennato, e di cui sto elaborando il nuovo episodio (e ricercando i fondi per realizzarlo), sono in pieno fermento per una nuova avventura all interno del mio lavoro di ricerca personale. Seguendo l’iter che ti ho descritto si sono sommati una serie di avvenimenti… C’è di partenza il corpo come interesse specifico, c’è l amore per il tribale e per i corpi dipinti elaborato lungo i miei viaggi . Ci sono stati due input normali. La mostra di Marc Quinn a Venezia, ed un mio recente viaggio tra Pompei ed Ercolano. Poi, a livello personale, c’è stata la performance Blue K, che ho curato di recente, omaggio a Yves Klein, in cui quattro modelle si coprono di vernice. Infine la mia partecipazione a Sagome 547 in cui dovevo riempire una sagoma di legno con una figura. Quindi è arrivata la necessità di sommare queste esperienze ed ho iniziato la serie chiamata Painted Ladies in cui ricopro di materiali e colori diversi modelle nude di diverse forme. Non è bodypainting anche se il corpo è dipinto. Non è bondage anche se spesso le modelle sono appese. Cerco di realizzare piccole statuine erotiche monocromatiche. Un immagine levigata e astratta, molto diversa dalle mie fotografie passate che di solito abbondano di citazioni. Diversa la tecnica di illuminazione (flash di studio che solitamente aborro), diverso persino il supporto su cui le stampo. Tutto per avere una sensazione di artificialità e di sessualità resa però straniata ed impersonale. Per quanto riguarda l’attività del mio studio, invece, oltre al master in fotografia di moda che dirigo presso il l’ ISFCI, sto organizzando un FashionFilm Festival, ed aiutando una mia amica ad elaborare un nuovo magazine.
 
 
Senza fare torto a nessuno (ma scatenando la mia oscura gelosia), chi sono i tuoi più stretti collaboratori?
 
Puoi essere felice perchè ho appena lasciato andare, da buon padre putativo, Chiara Collaro, giovanissima Art director cresciuta in casa ed ora assunta da una prestigiosa agenzia. Mi sento un pò come l’Udinese, allevo giovani che poi diventano fotografi, producer, art director, agenti. Ma come nel tuo caso, rimangono legati alla casa madre. A livello di ricerca creativa collaboro molto con Patrizia Boglione, storica art director, e con Federica Trotta ed il suo MIA visual studio. La fedelissima Francesca Petrangeli mi accompagna al MUA da secoli. Valeria Ribaldi mi ha aiutato per anni come editor. Simona Lianza e la mia partner registica, bravissima sul set e geniale in ogni fase della post, dal montaggio, al suono. Al 3d Stefano Luceri e Claudio Palmisano si occupano invece della postproduzione fotografica, e della stampa. In studio le crikkette sono Chantal Biondi e Lisa Sirignano, che si occupa di produzione per me e per scuola. E poi la preziosissima Livia Bonelli, amica di infanzia fidatissima, che mi fa da account, da problem solver,e da badante. Infine Federica detta SADO, la mia compagna, mi gestisce i due siti web oltre ad influenzaemi pesantemente nell’immaginario.
Li trovi tutti (meno Simona) nella foto di gruppo sul mio sito.
 
 
Hai fama di uno che legge molto. Leggi davvero? Che cosa leggi, cosa ti piace leggere, e che libro ci consigli di leggere quest’inverno.
 
Ti leggo i titoli che giacciono attualmente sul mio comodino: Crux Christi Serpentis, Le lettere di Eloisa e Abelardo, Empirismo Eretico di Pasolini, Giuda dal Vangelo all’Olocausto. Come vedi una rottura di palle pazzesca. Quando entro in libreria ho curiosità e desideri diversi di quando mi sdraio sotto un ombrellone. Ogni tanto qualche buon’ anima mi regala un romanzo. Questa estate ho amato molto la Trilogia Sentimentale di Javier Marias. Che potrebbe essere un ottima lettura per te, in qualità di latina residente in Albione.”